Abstract
Il presente contributo mira a gettare luce sulla figura ebraica dello Schlemihl, per come questa è venuta ad assumere, nei discorsi di Rahel Varnhagen, Hannah Arendt e Lea Ritter Santini, la funzione extra-letteraria di dispositivo di riconoscimento e schema esistenziale. È nella triangolazione dei discorsi e delle vite di queste tre intellettuali appartenenti, ognuna a suo modo, alla cultura tedesca, che la figura dello Schlemihl ha esemplarmente dispiegato la sua forza genetica, come metafora di un destino in cui, fin dal momento del suo apparire letterario nella società dei salotti berlinesi di primo Ottocento grazie ad Adelbert von Chamisso, hanno riconosciuto se stesse coloro che hanno dovuto ritagliare la propria vita sul fondamento dello sradicamento e di una esclusione primigenia. In quella che potrebbe essere compresa come una vera e propria genealogia, il riferirsi allo Schlemihl di Rahel Varnhagen, Hannah Arendt e Lea Ritter Santini restituisce il senso comune di uno sfaccettato subire e agire lo sradicamento, entro la cornice di un discorso prismatico – sotto forma di lettere, saggi e poesie – che nel nutrirsi di vita e pensiero ha saputo raccontare la marginalità nelle sue forme differenti e contigue.