Abstract
L'articolo sostiene che la self-disclosure dell'analista in seduta sia intimamente legata all'esperienza traumatica e alle pressioni che l'analista sente su di sé e che lo spingono a non ri-traumatizzare il paziente o ripetere con lui dinamiche traumatiche. Fornisce una serie di esempi di tali pressioni e delinea le difficoltà che l'analista può sperimentare nell'adottare un atteggiamento analitico, definito come il cercare di stare quanto più vicino possibile a ciò che il paziente porta in seduta. Ipotizza che la self-disclosure possa essere usata per disconfermare la percezione negativa che il paziente ha di se stesso o dell'analista, o per cercare di indurre il paziente ad acquisire una percezione positiva di se stesso o dell'analista, e che sebbene animati da buone intenzioni, tali interventi possano rivelarsi fallimentari e prolungare l'angoscia del paziente. Vengono forniti esempi in cui l'analista resta aderente alla co-costruzione delle prime dinamiche relazionali traumatiche e lavori attraverso il complesso traumatico; questo atteggiamento viene confrontato e contrapposto ad alcuni atteggiamenti psicoanalitici relazionali.
Reference25 articles.
1. The patient's experience of the analyst's subjectivity
2. Aron L. (1996). A Meeting of Minds: Mutuality in Psychoanalysis. Hillsdale NJ, London: The Analytic Press.
3. Analytic impasse and the third: Clinical implications of intersubjectivity theory
4. Beyond Doer and Done To: an Intersubjective View of Thirdness
5. Bromberg P. (2011). The Shadow of the Tsunami: and the Growth of the Relational Mind. New York, Hove: Routledge (trad. it. L’ombra dello tsunami. La crescita della mente relazionale. Milano: Raffaello Cortina, 2012).